Siamo da poco giunti al termine del mese del Pride (Pride month) che ogni anno commemora i moti di Stonewall, un locale di Christopher street a New York, del 1969. Evento che rappresenta una pietra miliare del movimento di liberazione LGBT negli Stati Uniti e dal 1970 a New York, come in molte altre città del mondo, si organizzano marce e parate per ricordarne l’anniversario. Sfortunatamente quest’anno, così come lo scorso, le celebrazioni del Pride hanno subito uno stop a causa della pandemia da Covid-19. In alcune città si è comunque provato ad organizzare degli eventi in scala ridotta per tenere acceso lo spirito del Pride.
Proprio in questo clima mi sono trovato a pensare al Pride, al suo significato e al valore nella società contemporanea. Il Pride è diventato uno strumento di affermazione della propria identità, di pari dignità, di uguaglianza e di visibilità per lesbiche, gay, bisessuali e transgender. Pride, come termine, si oppone a vergogna o stigma che per secoli hanno accompagnato le vite delle persone LGBTQ+. Nei decenni il Pride è senza dubbio diventato il modo migliore per supportare la rivendicazione dei diritti per la comunità LGBTQ+ e le parate dallo stile carnevalesco sono senza dubbio il simbolo principale della cultura di liberazione. Proprio la stravaganza e l’esagerazione dei partecipanti del Pride è diventata la migliore arma per combattere contro pregiudizi e discriminazioni.
Sebbene in molti stati occidentali, i diritti delle persone LGBTQ+ siano riconosciuti e tutelati dalla legge che punisce comportamenti discriminatori basati sul genere o sull’identità sessuale, ma garantisce anche il diritto a formare una famiglia o a vedersi riconosciuta la propria identità di genere, nella stragrande maggioranza degli stati la situazione è ben meno rosea. Pur rimanendo nel nostro stesso continente si trovano stati come Ungheria e Polonia dove le discriminazioni contro le persone LGBTQ+ non solo sono tollerate, ma addirittura perpetrate dallo Stato. Ancor di più se si guarda a molti paesi africani ed asiatici vedremo come le condotte omosessuali siano punite dal codice penale con detenzione e ammende sproporzionate e le persone LGBTQ+ siano quotidianamente vittime di abusi e trattamenti degradanti da parte delle forze armate che dovrebbero proteggerle.
Neanche la nostra cara Italia risulta tra gli stati più virtuosi quando si parla di riconoscimento dei diritti delle persone LGBTQ+. Per esempio, non si ha una equiparazione tra l’istituto dell’unione civile e del matrimonio, non si ha un riconoscimento legale per le cosiddette famiglie arcobaleno, ancor di più si utilizzano pratiche di assegnazione del sesso alla nascita per gli individui intersessuali e la stessa legge rende difficile e costoso il procedimento per il cambaimento di sesso o di identità di genere, solo per citare alcuni esempi. Nonostante l’enorme mole di lavoro da svolgere, l’attenzione pubblica e mediatica si è concentrata sul disegno di legge contro l’omobitransfobia, la misoginia e l’abilismo (c.d. ddl Zan) di cui ho parlato in un precedente intervento. Questa legge, seppur necessaria, non sarà di certo la legge che risolve i problemi del nostro paese. Non sarà di certo una legge che garantirà uguali diritti alle persone LGBTQ+, né imporrà il pensiero unico del genere come teme una certa destra e una parte della Chiesa Cattolica, ma certamente potrà porre un freno a comportamenti discriminatori e violenti dettati dall’odio.
Tutto ciò mi ha fatto riflettere su come la lotta di liberazione sia più che mai necessaria e su come essa debba essere indirizzata al raggiungimento di uguali diritti per tutti e non solo all’inclusione delle persone LGBTQ+. Per questo dovremmo continuamente ricordarci il significato del Pride e farci ispirare da questo nelle prossime battaglie da compiere. E anche quando i diritti delle persone LGBTQ+ saranno riconosciuti ovunque, il Pride servirà da monito per ricordare gli abusi e le discriminazioni subite e per conservare viva la memoria della battaglia. Potrà suonare un po’ masochista ai lettori, ma per ritrovare la motivazione nella lotta di liberazione, sono dovuto andare in uno Stato nel quale le persone LGBTQ+ sono discriminate per legge e punite per la loro stessa natura. Così ho avuto modo di incontrare Tarek Zeidan, direttore di Helem, la prima organizzazione LGBTQ+ nel mondo arabo. Per chi non avesse familiarità con l’arabo, helem significa sogno, un sogno che Tarek ha raccontato in maniera vivida e piena di dettagli in una breve, ma profonda, intervista sull’attivismo LGBTQ+ in Libano. Così, ho deciso di condividere con tutti voi quest’intervista in versione integrale per fornire una narrativa diversa che possa aiutare a vedere il Pride e l’attuale dibattito pubblico italiano sotto una nuova luce.
Helem è un’organizzazione rinomata in Libano e in tutto il mondo arabo, ma che non ha la stessa risonanza in altre zone del mondo, potresti brevemente dirci di cosa si occupa?
Helem è la prima organizzazione LGBTQ+ costituita nel mondo arabo, fondata a Beirut nel 2001. La sua missione è quella di offrire protezione alle persone LGBTQ+ e promuovere i loro diritti in Libano e in tutta la regione del Medio Oriente e Nord Africa.
Il nostro lavoro comprende tre aree distinte, ma interconnesse. Prima di tutto abbiamo un centro servizi che rappresenta il nucleo del lavoro di protezione e supporto. Qui è dove vengono coordinate le attività di intervento emergenziale, dove ha sede la nostra linea di ascolto, così come i nostri servizi medici e di salute mentale. Inoltre, da tre anni il centro servizi si occupa anche di assistenza umanitaria per rifugiati LGBTQ+ siriani tramite una collaborazione con l’alto commissariato per i rifugiati delle nazioni unite (UNHCR). In secondo luogo, abbiamo stabilito un centro comunitario dove offriamo servizi di capacity building per i nostri membri. Normalmente organizziamo anche eventi per la comunità dove invitiamo i membri dell’associazione a condividere le loro storie e i loro trascorsi oltre ai problemi quotidiani che si trovano ad affrontare. Inoltre, organizziamo bootcamp e corsi di formazione per tutte le persone che vogliono diventare attivisti/e per insegnargli come affrontare i problemi della quotidianità in Libano e come rispondere alle provocazioni e agli insulti omo-bi-transfobici. Infine, abbiamo un dipartimento di advocacy che si occupa di riforme politiche e legislative, così come della creazione di una cultura più inclusiva in Libano e altri paesi limitrofi. Le nostre aree di intervento principali sono la decriminalizzazione delle condotte omosessuali, i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, l’accesso all’educazione, alla sanità e al diritto di abitazione così come la libertà di manifestazione del pensiero e la lotta alla discriminazione.
Helem festeggia quest’anno i suoi 20 anni di attività, cosa vi spinge e vi motiva a portare avanti il vostro lavoro e quali sono gli obiettivi che vi siete prefissati?
Come prima cosa è la necessità che ci spinge ad agire. La necessità di essere tra i pochi attori in Libano con esperienza sul campo, con una storia e con l’abilità di controbattere alla sistematica omo-bi-transfobia che la comunità LGBTQ+ si trova a dover affrontare ogni giorno. Siamo in una posizione nella quale fare qualcosa non è solo parte della nostra missione, ma è anche un dovere etico e morale. In secondo luogo, credo che il Libano sia una delle nazioni più vicine a rovesciare la cultura prevalente di odio e discriminazione contro le persone LGBTQ+. Credo veramente che si possa cambiare il paradigma socio-culturale libanese e promuovere una visione alternativa della popolazione queer. Infine, la nostra comunità è senza dubbio la nostra maggiore fonte di ispirazione. Insieme siamo riusciti a creare uno spazio per la comunità e a definire le nostre identità in maniera unica unendo i tratti della cultura queer a quella libanese.
Dall’altro lato credo che gli obiettivi per Helem non finiscano mai perché ogni volta che ne raggiungiamo uno se ne creano dieci nuovi. Il nostro obiettivo finale è senza dubbio riuscire a garantire pari diritti a tutti i cittadini libanesi. In questo modo, la nostra battaglia si lega alle battaglie di tutte le minoranze e i gruppi marginalizzati.
Com’è lavorare in una nazione in cui l’omosessualità è ancora punita dal codice penale?
Fammi fare una precisazione: in Libano l’omosessualità non è punita in quanto tale, ma è ricondotta all’interno della fattispecie di “atti sessuali contro l’ordine naturale”. Questa è una clausola normativa introdotta durante il periodo in cui il Libano è stato un protettorato francese e rende le cose difficili per noi proprio a causa della sua vaghezza e delle numerose possibilità di interpretazione da parte dei giudici. Purtroppo, il vero problema non è da ricercarsi in questa legge bensì nel sistema giudiziario libanese che è estremamente debole e molto vulnerabile alla corruzione. Inoltre, anche gli organi preposti al rispetto della legge sono corrotti e incredibilmente violenti nei confronti delle persone LGBTQ+. I membri dell’esercito e della polizia ricorrono a torture e trattamenti degradanti con regolarità e passano impuniti proprio perché non vi è un vero sistema di controllo su di loro. Questo rende il nostro lavoro difficile perché crea un clima di intimidazione che non permette alle persone LGBTQ+ di combattere in maniera equa.
Pensi che sarà mai possibile abrogare questa legge?
Credo proprio di si. Credo che la storia, la ragione e la logica siano già dalla nostra parte così come il diritto internazionale e per questo vinceremo. La vera domanda è quando e come? Per me l’obiettivo non è solo quello di abrogare questa specifica legge perché è solo una fra tante. L’idea è quella di cambiare l’intero sistema, di riformare il codice penale così che possa proteggere i diritti e la dignità di tutti i cittadini. Rimuovere una legge senza variare il contesto non porta alcun cambiamento per la comunità LGBTQ+. Dobbiamo pensare e agire in maniera sistematica: decriminalizzare l’omosessualità è solo un passo da compiere e dobbiamo capire che potrebbe anche non essere il primo.
E quali sono gli altri passi da compiere?
Le nostre priorità sono i diritti dei lavoratori, l’accesso universale alla salute e all’istruzione così come il diritto all’abitazione. Con riferimento a quest’ultimo, per esempio, mi riferisco sia alle politiche attive di supporto all’abitazione, ma anche a sistemi di protezione o accoglienza per senza tetto e a sistemi contrattuali che siano giusti e bilanciati. Quando lavoriamo sulla legislazione credo che sia importante adottare un approccio a più ampio spettro che rendere l’attuale legislazione inclusiva per le persone LGBTQ+. Con Helem, in molti casi, ripartiamo da capo e scriviamo delle proposte di testi normativi completamente nuove che possano avere benefici per tutti e non solo per le persone LGBTQ+. Così, nel nostro lavoro non ci chiediamo solo come le leggi possano essere più inclusive, ma cerchiamo di fare rete con altri soggetti per promuovere una campagna di diritti in Libano aggiungendo il nostro valore come persone LGBTQ+. Solo così riusciremo ad andare oltre il paradigma dell’inclusione e a generare un valore condiviso per tutti i cittadini.
Puoi fornirci un esempio di una campagna che ha adottato questa strategia?
Abbiamo da poco concluso una campagna chiamata “ماـبتقطع” (Ma Bto2ta3!) traducibile come “non sarà tollerato”. La campagna, implementata con l’Osservatorio Libanese per i Diritti dei Lavoratori, aveva lo scopo di incoraggiare le persone LGBTQ+ a chiamare una linea dedicata e riportare i casi di abuso o violenza subiti sul posto di lavoro. In questo caso è stato possibile mappare gli abusi, predisporre un supporto legale per le vittime e contrastare il fenomeno. Questo è solo l’inizio di un lungo percorso di lavoro che dovrà coinvolgere il settore privato e molti altri gruppi di interesse.
Quali sono stati i risultati raggiunti dalla campagna? E quali pensi che potranno essere i risultati futuri?
La campagna ci ha permesso di documentare oltre 150 casi di condotte discriminatorie o di sfruttamento in Libano e altri paesi limitrofi. Questa è stata la prima volta in cui abbiamo mappato quello che le persone LGBTQ+ subiscono sul posto di lavoro e siamo stati in grado di diagnosticare i problemi principali così da sviluppare iniziative e progetti per risolverli. Spero che in futuro sia possibile non solo garantire accesso alla giustizia per le vittime di abuso, ma che si possa includere l’aspetto dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici LGBTQ+ all’interno di un più ampio dibattito sui diritti umani e in particolare sui diritti socioeconomici. L’idea è quella di mobilitare le persone e far capire loro che l’emancipazione economica è la pietra fondante per il raggiungimento di tutti gli altri diritti.
Helem non è solo un’associazione, è una casa e una famiglia per molte persone LGBTQ+ in Libano. Quali sono state le difficoltà che avete incontrato a causa della pandemia di Covi-19? Quali sono gli impatti dell’attuale situazione sul vostro lavoro?
Grazie per esserti accorto di questo aspetto del nostro centro, ma Helem non è solo quello, è un luogo di aggregazione, ma è anche uno spazio pubblico per persone LGBTQ+. L’accesso a spazi pubblici nostri ci è stato negato per talmente tanto tempo, che le dinamiche e la cultura della convivenza in un luogo pubblico non fa parte dell’esperienza di molte persone LGBTQ+ libanesi.
Per quanto riguarda la pandemia, è necessario legare i suoi effetti a quelli della crisi economica e dell’esplosione del 4 agosto scorso nel porto di Beirut. Per parlare di impatto bisogna prendere tutte e tre le catastrofi in considerazione perché il loro effetto combinato è stato devastante. Il nostro stesso centro è stato distrutto dall’esplosione e abbiamo dovuto lavorare da remoto per poter sopperire alle necessità dei nostri membri. Abbiamo dovuto ricostruire il centro e per questo motivo non siamo stati in grado di continuare il nostro solito lavoro. Per noi non è stato possibile spostare le attività online perché molti dei nostri beneficiari non hanno accesso a internet. Questo, combinato con la situazione politica ed economica e con l’impossibilità di garantire fondi per l’organizzazione, ci ha obbligato a rimandare la maggior parte delle attività, ma sono felice di dire che stiamo ripartendo alla grande e che riusciremo a concludere molti dei nostri progetti avviati entro la fine dell’anno.
Come avete lavorato in questo periodo? E quando pensi che il centro sarà nuovamente funzionale?
Abbiamo fatto delle attività di formazione online per non perdere il contatto con i nostri membri, ma non abbiamo potuto fare alcune delle nostre attività di comunità. Tuttavia, invece che rimanere in attesa della situazione abbiamo deciso di rimboccarci le maniche e di dedicarci all’assistenza umanitaria dopo l’esplosione. La nostra comunità si è riunita ed ha deciso di intraprendere del lavoro volontario per aiutare le persone a ricostruire le proprie case, abbiamo creato un centro di accoglienza per chi è rimasto senza casa e iniziato un piano di distribuzione di generi alimentari, acqua e prodotti di igiene personale oltre alle mascherine e altri dispositivi di protezione individuale, creando anche dei legami all’interno del quartiere. Inoltre, abbiamo creato un programma di supporto psicologico e una clinica gratuita per le persone LGBTQ+ con situazioni mediche gravi. Nel frattempo, abbiamo tenuto vivo il rapporto con la nostra comunità, vagliando i loro bisogni e cercando di sistemare al meglio le nostre attività in vista della riapertura del centro, che dovrebbe avvenire a giorni. Continueremo comunque a portare avanti entrambi i filoni di lavoro.
Per concludere, qual è il tuo “helem”?
Spero vivamente che alla fine di questo lavoro possa aver fatto qualcosa di buono e possa lasciare la comunità, l’organizzazione e il paese in un modo migliore di quello in cui li ho trovati.